In tema di reati fiscali, la Corte di Cassazione si è recentemente pronunciata relativamente a vari aspetti degli stessi.
Con la Sentenza depositata il 18 gennaio 2019 n.2342 ha ribadito, secondo l’orientamento ormai consolidato, che le presunzioni legali previste dalle norme tributarie non possono da sole fornire la prova della commissione dei reati previsti dal D.Lgs. n.74/2000, ma assumono solo valore indiziario degli stessi, dovendo essere integrate da ulteriori elementi di riscontro che accertino l’esistenza della condotta criminosa, incluse altre presunzioni, purché gravi,precise e concordanti (tra le tante, Sent. Cass. n.30890/2015).
Nel caso in esame, un’Associazione sportiva non aveva presentato la dichiarazione dei redditi e la dichiarazione Iva, in quanto aveva optato per il regime forfettario previsto dalla L.n.398/1991. La Guardia di Finanza aveva poi accertato la decadenza da tale regime in corso d’anno per aver superato il limite dei ricavi previsti e per altre violazioni e quindi l’Associazione avrebbe dovuto applicare il regime ordinario dal mese successivo al superamento del limite fino alla fine dell’anno.
La Corte di Cassazione ha accolto la tesi della difesa dell’Associazione, rinviando la causa al giudice di secondo grado, in merito alla configurabilità del dolo ed al superamento della soglia di punibilità, stabilendo che proprio in funzione dei differenti regimi tributari applicabili nell’anno in questione era necessario procedere all’accertamento effettivo dell’imposta evasa e se questa superasse o meno la soglia di punibilità prevista dall’art.5 del D.Lgs. n.74/2000 vigente ratione temporis, in quanto elemento costitutivo del reato.
Ed in relazione alla configurabilità del dolo, anche a titolo eventuale da parte dell’agente, per la Cassazione, vanno espressamente indicate le ragioni e gli elementi che lo rendano ravvisabile nei confronti dell’imputato e del suo comportamento, sempre tenuto conto del diverso regime tributario applicabile nel corso dell’anno in questione.
Con la Sentenza n.6360 depositata l’11 febbraio 2019, la Cassazione ha ribadito la configurabilità del reato ex art.2 del D.Lgs. n.74/2000 (dichiarazione fraudolenta mediante l’uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti) anche nel caso di utilizzo di fatture “materialmente” e non “ideologicamente” false.
L’imputato sosteneva nella sua tesi difensiva che l’utilizzo di fatture da lui stesso create (ovvero,materialmente false) lo facesse ricadere nel reato previsto dall’art.3 del medesimo D.Lgs.(dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici) che prevede la punibilità al superamento di determinate soglie, assenti nel caso dell’art.2. Tale difesa si basava sul fatto che le fatture ideologicamente false sono documenti reali in merito alla provenienza (ma non per il contenuto), mentre le fatture materialmente false (ovvero create dallo stesso imputato) sono sicuramente più facili da scoprire e quindi meno insidiose per l’Amministrazione Finanziaria:da qui il diverso trattamento e la previsione delle soglie di punibilità nel caso del solo art.3 del D.Lgs. n.74/2000.
Ma la Corte di Cassazione nella Sentenza in esame ha ribadito che il reato della dichiarazione fraudolenta previsto dall’art.2 del D.Lgs. n.74/2000, si configura sempre quando il contribuente utilizzi fatture o altri documenti di analogo valore probatorio per operazioni non realmente effettuate, indipendentemente dal fatto che la falsità sia ideologica o materiale. Pertanto, la distinzione dei due reati in questione, non si rinviene nella natura del falso (se materiale o ideologico), ma nello strumento utilizzato per realizzarlo.
Vi è, quindi, un nucleo comune previsto dai due articoli (la presentazione di una dichiarazione infedele); poi l’art.2 si caratterizza per l’utilizzo di fatture ed altri documenti per operazioni inesistenti (materialmente e/o ideologicamente), mentre l’art.3 presuppone una rappresentazione non veritiera delle scritture contabili obbligatorie con l’utilizzo di altri mezzi fraudolenti che ostacolino l’accertamento, con una soglia minima prevista per la punibilità (non sanzionando, comportamenti meramente omissivi come la mancata fatturazione, ma richiedendo sempre una condotta commissiva mediante documenti falsi o altri artifici diversi dalle fatture ed altri documenti dell’art.2).
Infine, con l’Ordinanza n.4205 del 13 febbraio 2019, la Corte di Cassazione ha stabilito che il raddoppio dei termini per l’accertamento tributario (previsto dall’art.43 del DPR n.600/1973 per le imposte sui redditi e dall’art.57 del DPR n.633/1972 per l’Iva, prima delle modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 128/2015 e dalla L. n.208/2015) operi in automatico quando fatti oggettivi come l’entità dell’imposta evasa, prefigurino già l’esistenza del reato tributario; pertanto, non sarebbe richiesta la materiale presentazione della denuncia penale all’Autorità giudiziale.
Nei primi due gradi di giudizio, le Commissioni Tributarie, avevano accolto le ragioni del contribuente in merito alla tardività dell’azione accertatrice da parte dell’Amministrazione finanziaria, la quale non aveva provato l’avvenuta presentazione della denuncia penale necessaria ai fini del raddoppio dei termini. La Corte di Cassazione ha, invece, accolto la tesi erariale, stabilendo che il raddoppio dei termini opera automaticamente, qualora si riscontri un fatto
oggettivo che comporta l’obbligo della denuncia penale ai sensi dell’art.331 c.p.p., indipendentemente dalla presentazione della denuncia stessa, dall’avvio dell’azione penale e dall’accertamento penale del reato ed essendo altresì irrilevante che l’azione penale non sia poi proseguita o si sia chiusa con il proscioglimento, l’assoluzione o la condanna dell’imputato (in quanto il raddoppio dei termini è già stabilito dalla legge, senza che l’ufficio abbia il potere discrezionale di non applicarlo).
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