Con la Sentenza n.10243 depositata in data 16 aprile 2024, la Corte di Cassazione ha escluso la possibilità di riqualificare l’atto di cessione totalitaria di partecipazioni in cessione d’azienda, in considerazione di quanto stabilito dall’art.20 del DPR n.131/86; ovvero, l’impossibilità di ricorrere, a tal fine, ad elementi extratestuali o ad altri atti collegati a quello assoggettato a tassazione.
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Per la Corte, tra la cessione d’azienda, intesa come insieme dei beni organizzato per l’esercizio dell’impresa ex art.2555 del Codice Civile e la cessione di partecipazioni, ancorché totalitaria, oltre all’evidente diverso oggetto del trasferimento, è da considerare anche la diversa disciplina che caratterizza le stesse in relazione alla responsabilità per i debiti sociali, al divieto di concorrenza ed alla successione nelle posizioni debitorie, creditorie e lavorative.
E proprio su tali basi, ha deciso per rigettare la tesi dell’Amministrazione Finanziaria, che, invece, riteneva di riqualificare la cessione totale di partecipazioni come cessione d’azienda, in quanto operazioni finalizzate allo stesso risultato che emergerebbe dall’atto sottoposto a registrazione, senza riferimento ad elementi estrinseci allo stesso.
Anche con la successiva Sentenza n.14031 depositata in data 21/05/2024, la Corte di Cassazione ha ribadito quanto stabilito, sia dalla stessa Corte che dalla Corte Costituzionale in precedenti occasioni, ovvero, che in seguito alla riforma dell’art.20 del DPR n.131/86, ad opera della Legge n.205/2017, successivamente resa retroattiva dalla Legge n.145/2018, non possono essere ritenute equivalenti le operazioni di cessione totalitaria di partecipazioni e la cessione d’azienda, in base al principio della prevalenza della sostanza sulla forma, in funzione antielusiva, ai fini dell’imposta di registro, in quanto per l’applicazione della stessa ci si deve riferire al solo contenuto intrinseco dell’atto portato alla registrazione, senza ricorrere ad altri atti o elementi extratestuali.
L’art.20 sopra richiamato consente, comunque, all’Ufficio di andare oltre la forma apparente dell’atto o il titolo dello stesso purché, però, non si superi lo schema negoziale tipico in cui risulta inquadrabile, attraverso un’artificiosa costruzione di una fattispecie imponibile diversa rispetto a quella voluta dalle parti, come nel caso in esame relativo alla riqualificazione della cessione totalitaria di partecipazioni in cessione d’azienda, sulla base di una asserita equivalenza economica delle stesse, senza considerare i diversi effetti giuridici che le contraddistinguono.
Inoltre, devono essere considerate irrilevanti le ragioni economiche e commerciali che hanno portato alla cessione oggetto di causa, che per la Corte di merito erano da ricercarsi nell’interesse del cedente a realizzare il valore complessivo dei beni aziendali attraverso un determinato negozio giuridico piuttosto che l’altro, anche in vista di un legittimo risparmio fiscale.
In sostanza, l’Amministrazione Finanziaria non deve ricercare un effetto economico presunto dell’atto quando, come nella fattispecie in esame, quest’ultimo è proprio quello tipico del negozio prescelto dalle parti di trasferire le quote contro un corrispettivo in denaro e senza clausole particolari che ne modifichino la sostanza o che ne facciano derivare effetti giuridici diversi.
La Cassazione ha, invece, ravvisato nell’operato dell’Ufficio il superamento dei limiti imposti dall’art.20, in quanto si era limitato ad affermare che i contraenti avevano simulato la cessione d’azienda con la cessione totalitaria di partecipazioni, per beneficiare dell’imposta di registro fissa anziché proporzionale, senza valutare gli elementi intrinseci dell’atto, ma solo perché esisteva un diverso negozio giuridico soggetto ad imposizione più alta.
Infine, la Sentenza stabilisce anche che qualora ricorra l’abuso del diritto e vi sia un risparmio fiscale indebito, l’Amministrazione Finanziaria può superare la qualificazione formale dell’atto, ricorrendo alla diversa norma antiabuso contenuta nell’art.10-bis della Legge n.212/2000.
Da ultimo, con la Sentenza n.14535 depositata in data 24 maggio 2024, la Corte di Cassazione, oltre a ribadire che per la cessione d’azienda si deve far riferimento all’elemento funzionale esistente tra i beni ceduti e l’impresa e che, se presente, qualifica l’operazione come unitaria e soggetta ad imposta di registro proporzionale ed esclusa da IVA ai sensi dell’art.2, c.3, del DPR n.633/1972, afferma anche che non è richiesto che il complesso di beni ceduto permetta l’esercizio immediato dell’attività d’impresa, essendo sufficiente la potenziale attitudine all’esercizio della stessa.
La Corte, ha, pertanto, respinto il ricorso dei contribuenti incentrato sul fatto che il complesso ceduto a seguito di decreto di trasferimento del giudice delegato a conclusione di un concordato fallimentare con terzo assuntore, non costituisse un’azienda. Inoltre, ha stabilito che, sebbene la cessione era stata assoggettata ad un tributo non dovuto (IVA), ma non a quello corretto (imposta di registro proporzionale), e nonostante il principio di alternatività delle tue imposte, ciò non costituiva un elemento a favore dei contribuenti, in quanto avrebbero comunque dovuto versare l’imposta prevista dalla legge e non quella scelta in base alle proprie considerazioni.
Di conseguenza, l’Ufficio non avrebbe violato il suddetto principio e neanche il divieto di doppia imposizione.
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