Contenzioso in materia di Operazioni Straordinarie

News | pubblicato il 5-11-2020
a cura di Studio Gargani

Con la Sentenza n. 27930 depositata in data 7 ottobre 2020, la Cassazione ha annullato con rinvio la precedente assoluzione per il delitto di bancarotta societaria ex art. 223,c.2, n.2, R.D. n. 267/1942 posta in essere attraverso contenzioso in materia di operazioni straordinarie dolose, stabilendo che anche operazioni apparentemente legittime e previste dall’ordinamento, come ad esempio un’operazione di cessione di ramo d’azienda o una scissione societaria, possono integrare tale reato se effettuate con l’intento di impoverire volontariamente il patrimonio societario e conseguentemente di provocare un pregiudizio alle ragioni dei creditori, indipendentemente dalle tutele per essi previste dal Codice Civile.

In sostanza per la Corte, confermando quanto già deciso in precedenti giudizi, qualsiasi tipo di negozio giuridico o operazione societaria può essere letta come distrattiva o finalizzata a svilire il patrimonio sociale, sia nel caso che il contenzioso in materia di operazioni straordinarie siano poste in essere al solo scopo di trasferire la ricchezza e la disponibilità dei beni aziendali ad un soggetto terzo in previsione di un eventuale fallimento, sia quando non derivino da esse incrementi economici o patrimoniali a favore della disponente ed in special modo se tali operazioni rischiose vengano poste in essere dai legali rappresentanti dell’azienda, una volta dichiarato il fallimento, rendendo inefficaci le tutele previste dalle norme penali fallimentari.

Per configurarsi il reato di bancarotta, occorre una valutazione oggettiva dello stato debitorio in cui si trova la società nel momento in cui effettua l’operazione straordinaria e per esso, in quanto reato di pericolo, è sufficiente la volontà di destinare diversamente il patrimonio sociale rispetto alla funzione di garanzia delle obbligazioni contratte nella gestione dell’impresa; non essendo richiesta, pertanto, la conoscenza dello stato di insolvenza o la volontà di addivenire al fallimento o di pregiudicare i creditori.

Nel caso di cessione di un ramo d’azienda ad un corrispettivo inferiore rispetto al valore reale dello stesso, il reato di bancarotta si può quindi configurare anche indipendentemente dalla previsione della tutela ex art.2560 C.C. che prevede la responsabilità dell’acquirente per i debiti pregressi dell’azienda; così come nel caso di una scissione societaria con trasferimento alla beneficiaria di beni di rilevante valore e successivo fallimento della scissa, qualora si dimostri che l’operazione sia stata congegnata per depauperare il suo patrimonio a danno dei creditori della stessa, nonostante questi ultimi possano rivalersi nei confronti della beneficiaria per i beni ad essa conferiti; ciò in quanto essi potrebbero incontrare notevoli difficoltà nel rintracciare i beni fuoriusciti dal patrimonio della scissa ed anche perché si troverebbero in concorrenza con i creditori propri della beneficiaria sugli stessi beni, con una minore possibilità di soddisfare il loro credito.

Infine, anche nel caso di contenzioso in materia di operazioni straordinarie poste in essere nell’ambito di un gruppo di imprese, va comprovato il saldo positivo delle stesse nell’interesse del gruppo o l’esistenza di eventuali vantaggi compensativi per la società che risulterebbe in apparenza danneggiata.

Sempre la Corte di Cassazione, con la Sentenza n.23165 depositata in data 22 ottobre 2020, ha accolto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate nei confronti di una società che aveva stipulato un contratto di affitto d’azienda al posto della gestione diretta di un albergo e che in base ai canoni di locazione stabiliti non superava il test di operatività ex art. 30 L. n. 724/94, risultando, pertanto, di comodo.

La Corte ha riscontato nel caso di specie la mancata prova da parte della società di situazioni specifiche ed indipendenti dalla propria volontà, che avrebbero, di fatto, reso impossibile realizzare i ricavi ed i redditi minimi richiesti, non riconoscendo l’affitto d’azienda in sé, come causa esimente dall’applicazione della disciplina delle società di comodo.

Tale scelta di affittare e non gestire direttamente l’azienda, rientra, infatti, nell’ambito delle decisioni volontarie dell’imprenditore e non è riscontrabile in essa una situazione inevitabile ed obbligata, così come la fissazione di un canone non adeguato alla zona o al periodo di vigenza del contratto.

Già in precedenti pronunce, la stessa Corte aveva stabilito che per disapplicare la normativa sulle società di comodo, non era sufficiente la mera enunciazione da parte del contribuente di condizioni generiche di difficoltà gestionali, dovute alla crisi del settore o alla concorrenza internazionale, ma si sarebbero dovuti analizzare dati concreti e riscontri oggettivi (n.26728/2017), così come non sarebbe bastato considerare come “oggettiva” la circostanza che il contratto d’affitto d’azienda prevedesse un canone troppo basso, senza ulteriori elementi di riscontro, realmente giustificativi dell’impossibilità di conseguire i ricavi minimi (n.4156/2018).

Va segnalato, però, che la giurisprudenza di merito, a differenza di quella di legittimità della Cassazione, è spesso favorevole al contribuente, ritenendo sufficienti per non considerarlo di comodo, motivazioni quali la necessità di accettare una riduzione del canone in situazioni di crisi economica generalizzata; o giustificando la stipula del contratto di affitto d’azienda, anche se ad un canone esiguo, per evitare di chiudere in perdita l’esercizio, o per escludere la possibilità che i beni siano utilizzati per il godimento personale dei soci; infine, nel caso di un contratto già esistente, per l’eccessiva difficoltà di dimostrare l’impossibilità di modificare ed adeguare i relativi canoni.

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