Con l’ordinanza n.14055 del 7 luglio 2020 emessa dalla Sezione Tributaria, la Corte ha ribadito quanto già stabilito da costante giurisprudenza della stessa, (in merito al Contenzioso in materia di IVA) ed anche delle Corti di merito e della Corte di Giustizia dell’Unione Europea; ovvero che è comunque possibile per il contribuente riportare l’eventuale credito IVA derivante da una dichiarazione omessa, fin nella dichiarazione del secondo anno successivo a quello in cui il diritto alla detrazione è sorto, con possibilità sia di computarlo in detrazione, sia di utilizzarlo in compensazione con altre imposte.
Tale conclusione si basa sul rispetto dei principi di neutralità dell’IVA e della prevalenza della sostanza sulla forma.
A sostegno di ciò, anche la stessa Agenzia delle Entrate aveva emanato in passato la C.M.34/2012 e la C.M. 21/2013 in cui riconosceva spettante il diritto all’utilizzo del credito anche se derivante da un’eventuale dichiarazione omessa, purché fosse riconosciuto come effettivo a seguito dell’accertamento della sua esistenza ex art.55 D.P.R. 633/72.
Così come sono da ricordare le Sent. Cass. SS.UU. n .17757 e n.17758 del 2016, con le quali si statuiva che nel rapporto tributario tra l’Amministrazione Finanziaria ed il contribuente, dovesse comunque prevalere la sostanza sulla forma, in presenza di un’operazione effettivamente svolta e lecita e di conseguenza l’esistenza del credito anche in assenza dell’invio della dichiarazione da cui derivava (il cui mancato adempimento risultava però sanzionabile), avendo quest’ultima solo efficacia comunicativa e non costitutiva dello stesso, come dettato anche dalle Direttive dell’UE.
Alla stessa conclusione la Cassazione giunge nella Sent.n.18393 del 4 settembre 2020, ammettendo l’esistenza del credito e la possibilità di utilizzo in compensazione, anche in assenza dell’invio della dichiarazione da cui lo stesso deriva.
Ciò, al fine di evitare che il contribuente sia costretto a pagare la cartella emessa a seguito del riporto a nuovo o della compensazione, chiedendo, una volta documentata l’esistenza del credito, il rimborso delle somme stesse; con il rischio di dover andare in contenzioso qualora gli venga rifiutato per tardività della domanda.
La Sentenza in esame, però, ammette tale possibilità solo per il credito IVA, escludendola per le imposte sui redditi e per l’Irap sulla base di due argomentazioni. Innanzi tutto perché il rispetto della neutralità dell’imposta vale solo per l’IVA; in secondo luogo per via dell’asserita difficoltà di dimostrare l’esistenza del credito relativo alle imposte dirette ed all’Irap, dovendo prendere in considerazione molteplici elementi da cui deriva la determinazione dell’imposta dovuta, nonché quelli da essa detraibili (acconti, crediti d’imposta e ritenute a titolo d’acconto subite).
Ma tale ultima motivazione non appare del tutto corretta, perché potrebbe risultare anche più facile dimostrare l’esistenza di un credito da imposte sui redditi o Irap (derivante da acconti versati superiori al saldo o da ritenute d’acconto subite in eccesso documentate dalle certificazioni del sostituto d’imposta), rispetto a quello IVA attraverso le fatture ed i registri.
Se, invece, il credito derivasse da costi non inerenti o ricavi non dichiarati, l’Ufficio dovrebbe necessariamente procedere ad un accertamento ulteriore, sia nel caso di dichiarazione omessa che presentata, per il disconoscimento del costo o per la ripresa a tassazione del ricavo; e sarebbe lo stesso per negare la detrazione o per assoggettare ad IVA, venendo così meno la diversità d’indagine e di difficoltà di prova tra i due tipi di imposte.
Infine, con la Sent. n.25433 depositata in data 9 settembre 2020, la Cassazione ha ribadito che in caso di omesso versamento dell’IVA, al fine dell’esclusione della colpevolezza del contribuente e della sussistenza del reato, l’inadempimento può essere ascritto a forza maggiore solo quando deriva da fatti a lui non imputabili e per i quali non abbia tempestivamente potuto porvi rimedio per cause non dipendenti dalla sua volontà; non ravvisando tale esimente nella fattispecie in esame a fronte di una già conclamata crisi dell’impresa.
A sostegno della decisione si rammenta che le cause di esclusione della colpevolezza sono espressamente codificate dalle norme penali e non possono essere oggetto di applicazione analogica da parte del giudice tributario.
Inoltre, la crisi dell’impresa era ormai evidente da anni (assenza, quindi, del requisito della repentinità della stessa) e l’imprenditore aveva preferito destinare le risorse finanziarie di cui disponeva al pagamento di altre obbligazioni non tributarie, per poter continuare l’attività d’impresa, assumendosi, così, il rischio conseguente all’inadempimento (ed a fronte di tale possibilità di scelta veniva meno di fatto anche l’inevitabilità del suo comportamento).
Infine, per quanto riguarda gli omessi versamenti dell’IVA (in merito al Contenzioso in materia di IVA), risulterebbe ancora più complicato dimostrare proprio l’inevitabilità della condotta, considerato che ordinariamente la stessa grava sul consumatore finale e viene riscossa dal venditore, che dovrebbe accantonarla al fine del successivo riversamento all’Erario, a meno di comprovare di aver adottato tutte le misure necessarie per fronteggiare la crisi di liquidità o in caso di mancato incasso dell’imposta per inadempimento altrui, il motivo per cui la fattura è stata emessa prima della ricezione del corrispettivo.
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